Manifesto

A volte una passeggiata può cambiare tutto, ed è proprio quello che accadde a Rousseau in un pomeriggio d’estate del 1749: stava percorrendo i consueti dieci chilometri da Parigi a Vincennes, per far visita al suo amico, il filosofo Denis Diderot, che era in carcere per aver pubblicato opere ritenute blasfeme; era una giornata particolarmente calda, la strada era polverosa, e Rousseau si fermò a riposare all’ombra. Mentre sfogliava stancamente un numero di Mercure de France gli capitò di leggere di un concorso indetto dall’Académie de Dijon per il miglior saggio sulla questione «se il progresso delle scienze e delle arti abbia contribuito a corrompere o a purificare i costumi».

Si sentì ebbro, disorientato, «come un ubriaco»; in quel momento, ricorda, «vidi un altro universo e divenni un altr’uomo». Il suo saggio vinse il primo premio, proiettando la sua carriera ai massimi livelli.

Rousseau avrebbe avuto la stessa rivelazione seduto nel suo studio, o viaggiando in carrozza? Forse, ma camminare aveva scatenato la sua immaginazione. A quattro chilometri orari, la velocità di una camminata a passo moderato, la mente è al massimo della sua efficienza, libera dalle meschinità dell’ufficio e dalla tirannia delle aspettative; può vagare, e quando la mente vaga accadono cose inaspettate e meravigliose: non sempre, ma più spesso di quanto si creda. Camminare fornisce il giusto equilibrio di stimolo e riposo, di sforzo e di ozio.

Quando camminiamo siamo simultaneamente attivi e inattivi: a un certo livello, la nostra mente è impegnata, concentra sul terreno davanti a noi e conscia di ciò che ci circonda; d’altra parte, però, nessuno di questi pensieri occupa molto spazio nel cervello, lasciandolo libero di vagare e di seguire il proprio capriccio.

Non è strano che molti filosofi amassero camminare. Socrate non faceva altro che bighellonare nell’agorà, Nietzsche si cimentava regolarmente in briose escursioni di due ore sulle Alpi svizzere, convinto che «tutte le grandi idee vengono concepite camminando». Thomas Hobbes aveva un bastone da passeggio con un calamaio incorporato, in modo da potersi appuntare i pensieri mentre vagava, e Thoreau faceva passeggiate di quattro ore attraverso la campagna di Concord, riempiendosi le ampie tasche di noci, semi, fiori, teste di frecce indiane e altri tesori. Immanuel Kant, ovviamente, aveva una routine strettamente regolamentata per quel che riguardava il camminare: ogni giorno pranzava alle 12.45 e poi partiva per un’ora esatta — mai di più, mai di meno —, di camminata sulla stessa via di Königsberg, in Prussia (nella Russia odierna); le sue uscite erano talmente puntuali che la gente della città se ne serviva per regolare l’orologio.

Tutti ottimi camminatori, ma nessuno comparabile a Rousseau, che di norma percorreva trentadue chilometri al giorno. Una volta camminò per quattrocentottanta chilometri, da Ginevra a Parigi; gli ci vollero due settimane.

Per Rousseau camminare era come respirare: «Non riesco quasi a pensare quando resto fermo; bisogna che il mio corpo sia in moto perché io vi trovi il mio spirito.» Mentre camminava si appuntava i pensieri su delle carte da gioco che portava sempre con sé. Rousseau non era il primo filosofo che camminava, ma fu senz’altro il primo a filosofeggiare così tanto sul camminare.

Quella del filosofo che cammina è un’immagine che smentisce uno dei grandi miti della filosofia, cioè che sia una ricerca della mente completamente separata dal corpo. Dall’eureka di Archimede nella vasca da bagno, all’abilità di schermidore di Cartesio alle avventure sessuali di Sartre, la filosofia è percorsa da un’impetuosa corrente corporea; non ci sono filosofi o filosofie incorporei: «C’è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza», scrive Nietzsche.

Eric Weiner, Socrate express. Quattordici lezioni di saggezza portatile, Bompiani, Milano, 2023